Come ogni tema da prima pagina, il Coronavirus è diventato un campo di battaglia politico. Sarebbe lo stesso anche se non si trattasse di un fatto epocale.

Ma oggi siamo al day after. L’apocalisse c’è già stata. Stiamo osservando alla sconfitta di chi pensava che l’accelerazione del progresso non avesse freni.Nessuna epidemia ha mai surgelato il mondo come oggi. Nessuna guerra. Questo virus è la minaccia più grande ai mercati e alla globalizzazione di sempre.

In questo nuovo campo di battaglia politico, stanno nascendo alleanze suggestive. Da una parte le anime belle, non so se sprovvedute o ipocrite, che sottostimano la portata della questione e considerano il virus una sorta di emanazione del razzismo latente. Dall’altra parte le frange più estreme del capitale finanziario, che squalificano il virus come il solito fattore esogeno al mercato e sostengono che alla fine, quando sarà debellato, creerà grandi opportunità d’investimento.

L’altro soggetto è la macchina da guerra del populismo, con la sua propaganda che cerca di sfruttare il virus per imporre politiche sovraniste e tenere in piedi una campagna elettorale fuori stagione. Ma il populismo sta anche ben attento a non creare panico sui mercati, per non disturbare il suo alleato occulto, che è il grande capitale.

Oggi, purtroppo,ci stiamo muovendo al buio, tra ipotesi empiriche e proiezioni numeriche molto difficili da interpretare.

I mercati sono sempre un ottimo indicatore, e la loro reazione è stata plastica. All’inizio una fase emotiva di discesa, breve, poi subito una risalita perché non si era creato quel panico che cercavano i ribassisti. I mercati spingono lo sguardo in avanti e già immaginano una soluzione nel medio termine. In questa prospettiva si dà la resilienza, e nel fatto che gli elementi esogeni temporanei si trasformano in buying opportunities.

A fronte della stabilità dei mercati, ci sono i provvedimenti adottati. Il Global North che interrompe le filiere di produzione. Le fabbriche chiuse in Asia. Lo shipping bloccato. La mobilità umana che di colpo viene limitata. Una vera discrasia. Come a dire: la temperatura dell’economia reale ha valori diversi da quella virtuale dei mercati, che non dànno segni di vera agitazione.

L’impressione è che stiamo andando verso una nuova era. La direzione è quella. Una nuova èra nella quale verranno testati ripetutamente i limiti dell’espansione economica e della globalizzazione. Perché l’impatto del virus sull’economia è devastante. Già oggi, intendo. Ma quello che deve far riflettere è il lungo termine. Le scorie. È un dato di fatto: nella storia dell’umanità non si è mai visto il mondo intero fermarsi.

Nella storia, contro il contagio si chiudono le frontiere, si limita la circolazione di merci e individui. Però l’espansione economica del nuovo millennio è fondata sull’abbattimento di qualsiasi barriera e restrizione. Se il virus resisterà a lungo, finirà per dominare il linguaggio politico e diventerà costituente.

Potremmo, quindi, muoverci verso un ritracciamento della globalizzazione. Da un lato l’economia digitale sarà sempre più divisa nei due blocchi, Cina e Stati Uniti. Dall’altro l’economia reale subirà un processo di rilocalizzazione. È come se la globalizzazione avesse scoperto i propri limiti, di colpo.

In un libro di Jared Diamond, “Armi, acciaio e malattie”, si racconta di come l’America venne conquistata grazie alla mancanza di anticorpi. Gli europei portavano virus dai quali gli indigeni non potevano difendersi. Oggi i virus non sono più armi ma rappresentano la minaccia esterna nella sua interezza e il perimetro entro il quale l’espansione deve muoversi. I contagi sono le nuove guerre da combattere.

Questa minaccia sembra nascere da una sorta di trappola evolutiva. La presenza attuale degli uomini sulla Terra è un unicum nella storia del pianeta. Troppi esemplari, che si appropriano di troppe risorse. L’Uomo entra nelle profondità vergini della natura, le invade. Entra in contatto con creature viventi sconosciute, e con i loro virus. Taglia gli alberi, uccide gli animali o li ingabbia per portarli vivi nei mercati. I virus, non avendo più chi li ospitava naturalmente, hanno bisogno di un nuovo portatore. Ed ecco la contaminazione: dall’animale all’Uomo, quindi dall’uomo all’uomo.

L’Uomo ha cambiato le cose tanto in fretta che la natura si è ribellata. Oggi il virus attacca il mercato più remoto nel cuore della natura, domani sarà a Tokyo. Perché si è azzerata la distanza che separava il villaggio rurale dal villaggio globale. E tutto ha avuto origine nel fondo oscuro della natura, a cui l’uomo non aveva mai avuto accesso prima.

Spesso si paragona lo scenario odierno a uno stato di guerra.Visione che appare semplicistica. Le guerre ormai sono delocalizzate e hanno impatto zero sull’economia, ma i virus si insinuano nei gangli dell’economia e della finanza. Toccando il cuore del mondo globale, possono avere un effetto devastante.

Cosa ci aspetta?

Al momento, molto dipenderà da quanto durerà la pandemia.

Siamo entrati nella seconda fase, ora si può parlare di “economia del virus”. L’atto costitutivo è stato la diffusione in Italia e in Corea del Sud, il contagio si è espanso e gli esiti ora rimangono un’incognita. Nel frattempo il Capitale sta preparando una controffensiva per fronteggiare l’emergenza.La prima misura sarà di carattere monetario: inondare ancora il sistema di liquidità, spingere i tassi sotto zero e mitigare i danni per tutti coloro che sono indebitati e rischiano di fallire in mancanza di ricavi. La leva monetaria del resto è diventata il presunto rimedio a tutti i mali. Stavolta, però, c’è un rischio enorme: il virus è in qualche modo “inflattivo” perché mina le classiche filiere produttive, disarticola la catena di montaggio planetaria, fa lievitare i costi di trasporto, oltre a provocare scarsità nelle eccedenze che non sono più in grado di compensarsi in maniera naturale. Quindi incombe un grave rischio di stagflazione, ossia depressione economica e deriva inflattiva.

La seconda misura sarà fiscale, ma è senza dubbio molto più complessa perché ogni Paese utilizzerà la leva in modo differente: per l’Europa – ancora sulla scia dell’austerity – sarà più complicato, mentre Cina e Stati Uniti avranno maggiore libertà nell’intervenire sulla spesa pubblica, senza vincoli autoimposti.

In Europa potremmo assistere a maggiori complicazioni politiche.Il richiamo alla flessibilità fiscale potrebbe creare seri problemi, soprattutto se la situazione verrà affrontata in maniera disorganica dai diversi Paesi membri dell’UE. Nel caso in cui la crisi – dettata dallo stato d’emergenza sanitaria – si dovesse rivelare profonda e duratura, sarebbe a rischio anche la moneta unica in quanto percepita come ingombrante vincolo alla libertà di predisporre misure economiche d’emergenza all’interno dei propri confini nazionali.

Di certo non siamo ancora in grado di prevedere l’entità dei danni potenziali, così come sono ancora sconosciuti gli effetti del virus sul lungo termine. Il frangente italiano è emblematico: i focolai sono scoppiati all’improvviso e più i controlli vengono effettuati, più i casi si moltiplicano. Il Coronavirus sembra avere mille volti e imperversa anche in assenza di sintomi. Purtroppo il paragone più calzante è quello di un nemico invisibile, difficile da localizzare ancor prima di combatterlo.

Qualcuno pensa che le misure dovranno riguardare tutti i continenti e, forse, ogni Paese sarà interessato a cooperare per il ripristino di un equilibrio globale.Sarebbe bello ma non è così, perché il processo di diffusione è asimmetrico e sta causando squilibri continui e imprevedibili che ostacoleranno la circolazione di persone e merci aumentando la tendenza a chiudere le frontiere e soprattutto fomentando ancora di più il revival delle tentazioni autarchiche e sovraniste.

I mercati si muoveranno al ribasso con enormi rotazioni settoriali: molti grandi investitori ne sapranno trarne vantaggio, mentre i piccoli rischieranno di essere spazzati via. Il virus non sarà un equalizzatore, al contrario esacerberà le diseguaglianze. La tipica “V” dei grafici, in cui l’angolo in basso indica il culmine della crisi, potrebbe trasformarsi in una gigantesca punta acuminata.

La vera tragedia sarà che gli sbandamenti dei mercati potrebbero ripercuotersi proprio sulla vita delle gente. Nonostante il virus (ovviamente) non abbia una coscienza politica, i suoi effetti colpirebbero le classi meno abbienti e più deboli: coloro che vivono in piccole località meno attrezzate o che, nelle grandi metropoli, avrebbero a che fare con i servizi pubblici – quali la sanità e i trasporti – congestionati, i supermercati presi d’assalto e l’atmosfera sociale minata dalle crescenti psicosi e isterie collettive.